L’intervista a Valter Mainetti. II collezionista di edifici e giornali «Però guadagno solo con i primi»
Valter Mainetti, 69 anni, romano, è un Ufo non molto identificabile dai non addetti ai lavori di«finanza immobiliare». Primo imprenditore del settore a ricevere il cavalierato del lavoro, professore ad honorem in materia all’Università di Parma, editore del Il Foglio, collezionista amante di pittura e scultura antica, amministratore delegato e azionista di maggioranza di Sorgente Group (dal 2oo1 ha promosso 34 fondi che con le 70 società immobiliari, finanziarie e di servizio controllano e gestiscono un patrimonio di circa 5 miliardi di euro), nonché… «Padre del regista dei film Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti. E li che vuole andare a parare, no?».
A sentire suo figlio, non è che gli abbiate tributato una «ola» quando si è messo a lavorare nel cinema. (Dalla faccia capisco che il privato non è argomento di cui vorrebbe parlare, ma a fatica non si sottrae). «Le riserve riguardavano la volontà di fare l’attore, carriera che ritenevo segnata da inevitabile discontinuità. Non ho mai contestato le scelte di Gabriele. Che ha fatto tutto da solo perché non voleva essere aiutato dalla famiglia. Il che gli fa onore, ma gli ha fatto anche perdere un sacco di tempo». (Ride). «Con le sue forze ha realizzato un film amato da critica e pubblico, costato 1 milione e 700.000 euro, budget non enorme gestito egregiamente, Gabriele del resto è stato sempre oculato fin da piccolo. Per questo e non solo per questo sono orgoglioso se oggi mi presentano come “il padre di”. Ma anche di mia figlia Veronica che vive negli Stati Uniti, presidente dei Sorgente Group of America, appassionata di fotografia, dietro la macchina fotografica ma anche davanti, come modella, ha appena avuto la copertina del britannico Observer. E poi sono orgoglioso di mio fratello Stefano, direttore d’orchestra e apprezzato compositore, anche di colonne sonore (sposato con l’attrice Elena Sofia Ricci, ndr). E infine, ma prima di tutti, di mia moglie Paola, restauratrice, vicepresidente della Fondazione Sorgente, ente senza scopo di lucro, con un comitato scientifico presieduto dallo storico dell’arte Claudio Strinati, per iniziative quali il sostegno al progetto di indagine archeologica e recupero del Teatro G di Selinunte, il rinnovo con il Comune di Roma per l’adozione del Giardino degli Aranci, il restauro delle Camerette di San Luigi Gonzaga, presso la chiesa di Sant’Ignazio, al Collegio Romano».
Lei ha studiato dai Gesuiti: liceo scientifico all’istituto Leone XIII di Milano, maturità al Pio IX di Roma. «L’impostazione, l’impegno, la precisione, la logica organizzativa che ho appreso da loro mi è utile tutt’ora».
Suo padre l’avrebbe voluta ingegnere. «Era un tecnico brillante, gli piaceva la complessità dei sistemi di impiantistica industriale, continuando la tradizione di famiglia iniziata ai primi Novecento con il mio bisnonno paterno per le opere in ferro. Nel secondo dopoguerra ha realizzato centinaia di edifici abitativi, residenziali e commerciali, stabilimenti industriali quali per esempio quelli per Chinotto Neri, Birra Peroni e parte dell’Alfa Romeo di Arese, un paio di acciaierie a Terni e Taranto, fino al Sincrotrone di Frascati, l’acceleratore di particelle dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, antenato dell’impianto presso il Cern di Ginevra. Per farlo contento, mi iscrissi a ingegneria. Ma io volevo fare lo storico, e passai a scienze politiche. Mio padre lo visse come un tradimento».
Laurea nel 1973, relatore Aldo Moro, padre storico della Dc, giustiziato dalle Brigate rosse nel 1978. «Tesi sull’immunità del Capo dello Stato, con comparazione storico istituzionale. Non si comprenderà mai abbastanza di cosa siamo stati privati con quell’azione criminale, compiuta da un piccolo gruppo di assassini, umanamente e intellettualmente infimi. Ero, e non solo io, contro il partito della fermezza che diceva no alla trattativa per liberarlo. Di Moro, docente statista, serbo un ricordo vivissimo, si fermava a parlar con noi allievi, la sue analisi erano accurate, espresse, in una forma complessa e articolata, ma alla fine ti riportavano sempre al punto con originali proposte di sintesi. Una mente affascinante profondamente intrisa di cattolicesimo democratico».
Fu mai tentato dall’entrare in politica? «Per un po’, tra il 1973 e fino alla morte di Moro, poi decisi di occuparmi delle aziende di famiglia». (Mainetti non lo dice, ma fu più di uno studente: frequentava casa Moro, nel 1976 fu attivo in campagna elettorale e poi, dopo la scomparsa del leader dc, presidente per breve tempo del Censam, il Centro studi Aldo Moro, ndr).
Cosa c’entra l’America, in questo contesto? «Mio nonno materno, Luigi Binda, nel 1919 costituì un’impresa a New York per la costruzione in appalto di strutture multipiano portanti per grandi edifici. Per esempio, il Chrysler Building di William van Alen nel 1928. Trasformò quindi la sua attività nella gestione di immobili di proprietà. Oggi, dopo aver prima preso e poi rivenduto la partecipazione di maggioranza nel grattacielo Chrysler, negli Usa abbiamo puntato sui cosiddetti immobili Historic, trophy and beautiful buildings, cioè di altissimo pregio dal punto di vista storico, architettonico, stilistico e di collocazione geografica. Pensi al Flatiron di New York, al Fine Arts Building di Los Angeles, alla Clock Tower che domina la baia di Santa Monica».
Anche in Europa vi siete mossi in tale perimetro. «A Londra abbiamo la Queensberry House nel quartiere di Mayfair. In Francia due Chateaux. A Roma nel centro storico il Palazzo del Tritone, sede del nostro gruppo, e la Galleria Colonna ribattezzata Alberto Sordi. A Milano un palazzo in via S-nato e il complesso che domina via Cordusio e la relativa piazza».
Sull’impero Sorgente non tramonta mai il sole. Come l’ha espanso? «Con la riforma dei fondi d’investimento nel 1999, decisi di entrare nel settore della finanza immobiliare. Paradossalmente, avrei guadagnato di più facendo il costruttore, ma ero affascinato dall’innovazione degli strumenti finanziari più moderni. Gli investitori istituzionali – enti di previdenza, società di assicurazioni- ci affidano capitali da loro amministrati sottoscrivendo quote dei nostri fondi. Noi gestiamo quel denaro acquistando immobili “iconici”, che garantiscono un buon rendimento oltre ad apprezzarsi per il loro prestigio».
Editoria. Avete il controllo al 100% del Foglio. del 30% della Gazzetta del Mezzogiorno, del 4o% del settimanale Tempi (come l’imprenditore Davide Bizzi, li restante 20% è di Samuele Sanvite). È la prosecuzione del suo interesse per la politica?«Premessa: i giornali li fanno la direzione e la redazione della testata in totale autonomia. La passione per la carta stampata è figlia dell’amore per le pubblicazioni di libri d’arte. Quanto alla politica, il Foglio ha sostenuto il governo di Matteo Renzi e il referendum istituzionale. Siamo in una fase di grande confusione. Di perenne transizione, che forse è un dato strutturale, endemico della nostra realtà. Se devo essere sincero, speravo che con il referendum (anche se non mi piaceva come era stata scritta la riforma, il Senato avrebbe meritato un trattamento di maggiore rispetto), si aprisse una stagione in cui – con uno snellimento procedurale e il monocameralismo – si potessero liberare quelle energie compresse tra i troppi lacci e lacciuoli del sistema Italia. Invece Renzi ha prima rotto il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi sulla scelta di Sergio Mattarella come nuovo capo dello Stato, e poi ha personalizzato lo scontro, con l’esito che conosciamo».
Il Belpaese talvolta dà l’impressione di riuscire a sopravvivere nonostante la politica. «Sì, ma non possiamo contare sempre sulla protezione dello stellone. L’Italia ha bisogno di essere amministrata al passo con tempi e sfide imposte dalla costante evoluzione del contesto interno e internazionale. Invece io vedo purtroppo un’Italia che, vogliamo dire da Firenze in giù? E’al palo».
A Roma c’è chi si è rassegnato: anziché votare per il sindaco – qualsiasi sindaco – si poteva lasciare il Campidoglio in mano al prefetto, la gestione sarebbe stata più scorrevole e tempestiva. «Se a Roma avessero messo un commissario, con un po’ di vice, non per 6 mesi, ma per un lustro, non credo Roma ne avrebbe sofferto. La Capitale va raddrizzata e guidata. Poi arrivo a comprendere le ragioni del malessere di chi ha votato per protesta il M5s di Beppe Grillo, ma è l’inconsistenza del suo personale politico a risultare sconcertante».
Infine, il mercato immobiliare: è in ripresa? «Sul segmento di qualità, quello degli immobili di pregio, le aspettative sono tutt’altro che pessimistiche. Se volessimo vendere la Galleria Colonna, in 3 mesi concluderemmo» (per una cifra intorno ai 280 milioni, avendola acquistata a 200. Ma Mainetti, congedandoci con un sorriso, non conferma né smentisce, ndr).
Fonte articolo:
LaVerità
Autore:
Antonello Piroso
Luogo:
Roma